Antistoria degli italiani by Giordano Bruno Guerri

Antistoria degli italiani by Giordano Bruno Guerri

autore:Giordano Bruno Guerri
La lingua: ita
Format: epub
editore: La nave di Teseo
pubblicato: 2018-07-14T16:00:00+00:00


Gli italiani e la rivoluzione

Anche gli italiani, ormai, erano davvero pronti per cambiare tutto, e ne avevano motivo. Basti pensare al problema dei reduci, disoccupati o – a centinaia di migliaia – “mutilati e invalidi”: anagraficamente nel pieno del vigore ma in realtà ciechi, storpi, monchi, sordi, inabili al lavoro e costretti a sopravvivere con una pensione ridicola che lo stato stentava a concedere. Una situazione indegna e umiliante per chi aveva difeso quello stato con un costo che ora gli appariva, e era, sproporzionato.

Chi non era segnato nel fisico era ferito nello spirito; invece del promesso futuro migliore in un paese migliore rivedeva lo stesso paese in condizioni peggiori e che, dopo lo stordimento delle battaglie, riscopriva la realtà: un Sud agricolo, arretratissimo, e un Nord piuttosto industrializzato, abbastanza moderno; le città dove si iniziavano a conoscere i benefici del progresso e le campagne in cui si viveva come due secoli prima; i politici che continuavano con i loro programmi astratti, i loro concretissimi giochi di potere, e il popolo che soffriva la più grande delle miserie. Insomma, un paese unito sulla carta dalle Alpi alla Sicilia, ma che per la prima volta svelava ai propri abitanti il paradosso, i trucchi, le ipocrisie su cui era stato costruito. L’unico tratto in comune che restava ai reduci era il passato nelle trincee, insieme alla rabbia e all’impotenza del presente. Infine, la paura di tornare nell’anonimia individuale dopo avere saputo di essere un gruppo, un nucleo, un insieme assolutamente diversi da quelli di prima della guerra.

Molti erano borghesi, soprattutto piccoloborghesi: impiegati, tecnici, artigiani ma anche proprietari di imprese a conduzione familiare, commercianti, insegnanti. Erano stati loro i promossi sul campo senza preparazione, ufficiali di complemento improvvisati a comandare milioni di operai e contadini, che la propaganda aveva enfatizzato come “popolo di fanti”. Le alte gerarchie militari avevano lavato il cervello a questi borghesi lasciando che considerassero il loro coraggio invincibile, la loro cultura superiore, la loro abnegazione la sola cosa di cui l’esercito aveva bisogno. Non importava se poi quell’abnegazione, come la cultura, non esisteva, e se il coraggio si fondava sulla paura della fucilazione: la vittoria dipendeva da loro. Era naturale che alla fine di una guerra “vinta da loro”, non riuscissero a riabituarsi alla monotona vita civile. Chi aveva mandato all’assalto migliaia di soldati, chi per quattro anni era stato indicato come il salvatore della patria e il coronatore del Risorgimento non poteva tornare alla vita civile senza traumi, senza problemi. Chi aveva creduto davvero di sedere al fianco del “generalissimo” Diaz faticava a riaprire il negozio, a insegnare nelle scuole, a impastare il pane, a compilare le fatture in bella grafia. Chi all’inizio di una guerra atroce si era scoperto deciso, a metà coraggioso e al termine vincente non riusciva più a credere nei valori della pace, nella mediocrità della società sabauda, nel formalismo sterile e bigotto delle sue regole.

Questi ufficiali improvvisati – a volte peggiori dei soldati ma che spesso avevano dovuto rimediare agli errori dei superiori – si sentivano traditi, abbandonati, impotenti.



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